Il tempo di cura con l’ Adolescente

Parlare al ragazzo in analisi significa permettere anche a lui di parlarci e parlarsi, dato che in seguito  all’impatto della nostra parola è possibile una attivazione o riattivazione di una adolescenza altrimenti  bloccata o, nelle ipotesi meno riuscite, una permanenza nel blocco soggettivo, se non la rottura del  rapporto analitico. Perché ci sia una comunicazione proficua è necessaria una certa fiducia reciproca;  niente è tuttavia meno sicuro da stabilire con l’adolescente, sia nel primo colloquio che nei successivi. La  domanda di aiuto che il giovane paziente porta è spesso confusa. Egli chiede un aiuto psicologico, ma  nello stesso tempo non può accettare l’aiuto dall’altro, dal momento che non riconosce a se stesso la  capacità di curarsi. Nei primi incontri con il ragazzo quindi tutto è di importanza estrema e anche il nostro  intervento non può essere che complesso perché, non appena lo invitiamo a pensare insieme a noi,  andiamo ad attaccare una sua difesa. Appare dunque importante, nel primo incontro con l’adolescente,  porsi il problema di valutare le sue capacità di pensiero poiché il nostro scambio avviene attraverso l’uso  della parola. Il pensiero si trova al centro della negoziazione tra interno ed esterno ed ha la funzione di  rendere pubblico ciò che è intimo: l’istanza che regola questa negoziazione è il preconscio. Con l’avvento  della pubertà l’adolescente deve rinunciare a rendere concreto ciò che è da lui pensato, in relazione  soprattutto alla rinuncia dell’Edipo. 

Durante l’infanzia la conclusione dell’Edipo era stata rimandata a più tardi ed è proprio quando diventa  possibile la realizzazione dell’incesto e del parricidio che bisogna rinunciarvi. Questi desideri che creano  turbativa si allontanano dalla coscienza ma vengono ripresi nell’attività fantasmatica, dove è possibile un  investimento di queste idee senza legame con la realtà esterna. Freud (1911) ne Sui due principi dell’accadere psichico ci mostra che una delle funzioni del pensiero è quella di separare ciò che è reale da ciò che rimane  nel mondo interno. C’è un’area che è indipendente dal principio di realtà ma ubbidisce al principio del  piacere, vale a dire l’area delle fantasie. L’onnipotenza infantile in adolescenza non viene mai del tutto abbandonata, ma si ritrova e sopravvive  nelle fantasticherie, quindi una parte del pensiero non si sottomette mai al principio di realtà. Durante  l’infanzia, mentre lo sviluppo prosegue per ciò che riguarda lo sviluppo cognitivo, le pulsioni sessuali si  comportano in un modo autoerotico e trovano così la loro soddisfazione. La pubertà dà nuove possibilità 

al bambino che diventa adolescente, in particolare gli dà la possibilità di realizzare i suoi desideri edipici.  Per poter accettare questa realtà senza ammalarsi, l’adolescente deve rinunciare ad una quota di  onnipotenza infantile. L’avvento di ciò che Gutton (2008) ha definito “esplosione puberale” sottolinea  bene la dimensione traumatica della pubertà, intesa come sopraffazione del soggetto da parte degli  eccitamenti che vengono sia dall’esterno che dall’interno. Nessun adolescente può evitare il periodo in  cui lo scioglimento dei legami con gli oggetti idealizzati dell’infanzia libera un’enorme energia che rischia  di essere distruttiva, ma questi scioglimenti sono indispensabili affinché nuovi legami possano essere  realizzati. Nell’analisi della domanda bisogna quindi valutare se il paziente è alla ricerca di un’altra  soluzione che non sia solo quella della scarica. Anche se egli non è in grado al momento di utilizzare  l’oggetto, è importante valutare il desiderio dell’oggetto. Ladame e Perret-Catipovic (1998) riportano  l’esempio illuminante dell’Amleto di Shakespeare il quale, nel porsi il problema “essere o non essere”, si  angoscia sempre più ed è talmente inflazionato dai pensieri, che lo rinviano sempre al parricidio e  all’incesto, che non può dormire per la paura di sognare. Sono i processi del preconscio ad esercitare una  inibizione della tendenza alla scarica, producendo un differimento di essa. Come precisa Freud (1915)  l’inconscio intrattiene con il preconscio una serie di relazioni, lo influenza e ne è influenzato . Fra i vari  autori che hanno rivisitato e approfondito il ruolo del preconscio nella pratica psicoanalitica con gli  adolescenti, l’ultimo e più autorevole è Raymond Cahn (2000). Egli destina un ruolo fondamentale al  preconscio e raccomanda ai colleghi di usare la massima sensibilità nel cogliere le occasioni nelle quali si  dispiega il transfert. Per Chan (2004) appare fondamentale che lo psicoanalista assuma la funzione, con  il suo personale lavoro immaginativo, di creare o ricostruire legami che permettano di ritrovare senso  attraverso i collegamenti che egli stesso tenta di stabilire tra gli elementi portati dal paziente. Dobbiamo  essere consapevoli che quando proponiamo un percorso analitico, noi mettiamo il ragazzo in grande  difficoltà. Lo invitiamo ad una relazione asimmetrica per riuscire a superare la sua relazione di dipendenza  dai genitori. Gli chiediamo di accettare la vicinanza di un adulto nell’osservare una condizione che vede  implicato un corpo mostruoso, incestuoso e parricida. Gli chiediamo di pensare insieme a noi ciò che  Gutton (2008) definisce la “bruttezza pubertaria”. In definitiva gli chiediamo di tollerare la contraddizione  insieme a noi e inserirla in una dimensione conflittuale. Per questo il percorso analitico con l’adolescente  e il giovane adulto è, come suggerisce Novelletto (2002), un continuo percorso di “negoziazione”. Ciò  avviene attraverso l’uso della parola. Una via per uscire dal paradosso della nostra condizione appare  essere quella di mostrare al ragazzo come il nostro pensiero si costruisce attraverso l’uso che facciamo  delle sue parole. Quinodoz (2002) definisce la parola usata in questo modo, “parola incarnata”: una parola  dove c’è il nostro pensare, il nostro sentire e anche il nostro corpo. Sembra proprio che il paziente tema  meno un tale funzionamento di pensiero. Egli lentamente si incuriosisce ad un adulto così diverso, gli si  avvicina, lo umanizza, perlustra un nuovo mondo che inizia ad affascinarlo. Questo dialogo così  particolare con l’adulto diventa per lui un’esperienza nuova, unica, inedita. L’uso dell’interpretazione con l’adolescente e il giovane adulto è materia delicata, ma altre modalità di parola esistono e si rivelano  essenziali. Parole usate per sottolineare, prolungare, riscontrare, lievemente contestare, stupirsi, persino  sorprendere. Rispetto a questi diversi stili di parola, il sottile limite ove situare l’interpretazione è forse  nella capacità di creare dei legami tra i diversi discorsi uditi. Se dico “sei inquieto…” rilevo la presenza di  una sofferenza, di un’angoscia. Questo collegamento può accompagnarsi alla rivelazione di un senso  nascosto. Per il solo fatto di creare collegamenti tra le parole del ragazzo, utilizzando le nostre, un nuovo  senso compare, qualcosa prima ignorato fa la sua apparizione, ciò che era taciuto fino a quel momento  diventa dicibile. Attraverso questo tipo d’interpretazione l’adolescente è portato a scoprire il beneficio  del nostro incontro, ci scopre adulti diversi, attenti ad altre realtà, a valori non convenzionali. La nuova  prospettiva lo attira e lo impegna in un lavoro interiore cui aspirava, ma che temeva al tempo stesso. I  primi colloqui rivelano un’importanza particolare, nella misura in cui la posta in gioco consiste nel rendere  o non rendere possibile l’intesa necessaria tra il paziente e noi. Questa domanda si pone sempre ma con  l’adolescente e il giovane adulto la sollecitazione è ancora più viva e l’esito più incerto. A volte capita di  avere dei primi colloqui che sembrano andare troppo bene, e che si smontano l’indomani: nel confidarsi  troppo velocemente, il ragazzo si sente reso più fragile. Al contrario, quando il paziente ha difficoltà a  parlare, il primo colloquio si rivela problematico. In queste situazioni ho l’abitudine a mostrarmi più  attivo, a interrogare sulla vita quotidiana, ordinaria. Sondo qualche suo vissuto: “Come reagisci?… Cosa  ti provoca?…”, mettendo così alla prova la sua capacità di affrontare una tematica più interiore. Anche  se ci riesco, non mi ci rinchiudo, torno verso dettagli più quotidiani, instauro in qualche modo una zona  più neutra, franca. Passo da un luogo all’altro e poi ritento e mi spingo un po’ più lontano, nell’apertura  alla fiducia. Lavorando sul transfert-controtransfert siamo quindi continuamente impegnati a trovare le  parole giuste, comunicandole al momento opportuno, prestando estrema attenzione a esprimere, con  differenti sfumature, ciò che si sta disvelando nella relazione analitica. In contesti particolari ove la parola  a volte appare carente di senso, se non pura evacuazione, appare fondamentale prestare attenzione ad un  linguaggio allargato, ove il corpo, la voce, la mimica, i gesti, il tono, i sospiri, contribuiscono a costruire  un’immagine sonora che riempie di senso la parola e arricchisce la nostra comprensione. Il dover  accogliere, metabolizzare e comunicare tutto questa massa di informazioni che riceviamo attraverso la  parola, credo sia il fondamento di ogni lavoro psicoanalitico. Se il paziente parla e si confida, quali che  siano i dati di cui tratta, si è rimesso in moto un processo del pensiero che a sua volta rilancerà il processo  soggettivo.

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